Intervista a Claudio Sanfilippo

Claudio, dunque è uscito Un armadio di canzoni per l’editore Interlinea. Allora sarai a Roma a presentarlo?

Sì, è successo che Luigi è una delle persone più citate nel libro, così gli ho fatto mandare una copia dall’editore. Lui mi ha chiamato qualche giorno dopo in preda a un grande entusiasmo, il libro gli è piaciuto tantissimo e mi ha detto “voglio assolutamente organizzare con te una presentazione a Roma, una presentazione-concerto”. Quindi io giovedì 10 aprile prendo il treno e vado a Roma, ho visto Luigi l’ultima volta quattro o cinque anni fa a Milano… Presenterò il libro insieme a lui, farò un’oretta di presentazione e un’oretta di concerto per la sua associazione “Giovani del Folkstudio”.

 

Bella l’idea dell’”armadio”. L’idea del titolo è di Gino Cervi…?

In realtà questo libro è nato proprio sotto la spinta di Gino, una spinta che non prefigurava esattamente quello che poi è venuto fuori, ma è stato lui a dirmi “ora che hai l’attività di insegnamento, perché non ti metti a scrivere sullo scrivere canzoni?”

 

Una buona idea. Tu insegni alla Scuola Civica di musica Claudio Abbado…

…nel corso di popular music, insegno scrittura dei testi.

Così io ho deciso di andare un po’ per luoghi, ho messo insieme un po’ di capitoli. Avrei potuto scrivere tanto di più, questi sono quelli che mi sono venuti in mente al volo. Ho deciso di fare delle tappe di viaggio brevi, capitoli che sono brevi racconti, e in ciascuno c’è un posto. Ce ne sono cinque o sei milanesi, ma poi c’è dentro la Spagna, la Liguria, il lago di Garda, gli Stati Uniti, la Sicilia, la Sardegna, la Corsica. Una specie di genius loci legato alla scrittura della canzone, da parte di uno che le canzoni le scrive da mezzo secolo; possono piacere o meno, e io sono poco famoso (ridiamo), anzi non sono famoso per niente, ma se fossi De Gregori o Paolo Conte o Baglioni il dato della canzone in sé assumerebbe un valore più importante per ragioni ovvie. Invece, e magari l’avrei fatto comunque anche se fossi famosissimo, ho dovuto fare in modo che le canzoni diventassero un pretesto per raccontare. Quello che mi interessa non è tanto la canzone, è piuttosto andare a ritrovare quel tipo di stato d’animo, di situazione mentale, fisica, logistica, quei paesaggi che mi hanno parlato, che hanno fatto sì che trovassi quella cosa che si chiama ispirazione, ecco. Ritrovare il filo del discorso del momento ispirativo.

 

A proposito dei luoghi, anni fa pubblicasti quel tuo, come si può dire, racconto lungo o romanzo breve, in quella collana che girava proprio intorno ai luoghi. C’eravate tu, Massimo Cassani…

C’erano anche Davide Sapienza, Ferruccio Parazzoli… Era la collana Genius Loci di un piccolo editore bergamasco che si chiama Bolis, e ho scritto un racconto lungo, “Fin dove arriva l’acqua”, dove mescolo realtà e fantasia, il luogo è la zona del Naviglio di Milano. C’è un episodio che diventa un capitolo di questo libro, l’epilogo è quello che nell’Armadio di canzoni è dedicato a “Stile libero”. Un libro che nasce dall’importanza dei luoghi…

 

Pensavo: non è strano che se uno fa una collana sui luoghi, pensa a Claudio Sanfilippo… i luoghi nelle tue canzoni hanno una centralità, non solo Milano…

C’è una ragione, naturalmente inconscia nel mio percorso di tanti anni. Ne parlavo proprio con Luigi, che mi diceva “ho apprezzato molto la formula del libro, perché i luoghi sono importanti”: nel folk non c’è canzone dove non ci sia un luogo, o un personaggio dentro un luogo, che può essere qualche volta esplicito, qualche altra volta invece è più da immaginare, ma il contesto dove si muove l’immaginario del folk è legato ai luoghi. E per me il padre di tutti i generi è la musica folk, che poi col tempo si codifica per tante strade. Veniamo tutti da là…

 

Hai, ragione, sai, ho appena finito di leggere l’ultima biografia di Robert Johnson, e nei suoi brani sono citati luoghi, le cornici spaziali sono chiare, è proprio come dici.

Non l’ho scritto nel libro, ma qualsiasi canzone è per forza legata a un certo momento, in un dato posto, con una certa temperatura, in una certa stagione. La stessa ispirazione per una canzone scritta nel 1988 in una certa area del mondo o nella città dove vivi, in un determinato giorno, sarebbe nata diversamente in un altro posto. Il luogo è quello che dà l’incipit, il motore in qualche modo si accende all’incrocio tra chi scrive e il paesaggio intorno.

 

…e molti dei capitoli del libro hanno un nome di un luogo, ma soprattutto tutti hanno una data. Come dire, non esistono luoghi in sé, ma quel luogo in quel momento e non in un altro momento insomma.

Esattamente. E poi perché l’idea del libro, che è nata insieme alla scrittura, è quella di mettere a fuoco una specie di atlante del mio viaggio, dello scrivere canzoni. Mi sono immaginato un portolano, un atlante, dove ogni tappa ha un significato legato a una canzone, a uno stato d’animo, a un paesaggio.

 

Ci siamo detti altre volte che il tempo nelle tue canzoni è importantissimo: il tempo, il passato… E poi anche l’armadio mi fa pensare a un posto dove si conservano cose, dove ritrovi delle cose.

Sì, inizialmente il libro si chiamava L’Officina degli accordi, perché il senso di questo libro in fondo è nel fare dell’artigiano…

 

Che poi è diventato il titolo di un capitolo…

Infatti. Poi è diventato Un armadio di canzoni perché quando ho fatto leggere a Gino il libro una volta terminato, gli ho chiesto di scrivere una presentazione. E quando lui me l’ha mandata c’era questa idea dell’armadio di canzoni, e mi son detto: è perfetta per il titolo! Perché è il luogo dove si conservano le cose, dove le cose non vanno a male come se fosse una dispensa di cibo, o un frigorifero. Magari devi stare attento alla polvere, e ogni tanto dare una rinfrescata…

 

In un armadio il tempo è più lento che in una dispensa, in effetti…

Esatto. Poi ovviamente l’armadio di canzoni è sostanzialmente la memoria. Io come tutti gli anziani (ridiamo) ormai comincio a ricordarmi benissimo le cose che ho fatto tanto tempo fa, e così non è stato difficile (altre risate), ma insomma c’è questo senso non dico di infinito ma di… come dire?, di tempi estesi, dove non c’è preoccupazione…

 

…si può dire di durevole? Il passato che canti è un passato che dura, quando canti di Kores e Brill vengono in mente cose di quando si era bambini, ma son cose che uno sa di conoscere…

Credo che la canzone sia una forma di arte, di artigianato, come vogliamo definirla, che costituisce un modo per restituire cose importanti, indicative, positive, belle, che fa bene ricordare, che fa bene tenere nel proprio bagaglio. Kores e Brill non ci sono più, ma ci sono ricordi e tantissime fotografie molto belle, c’è un mondo dentro il quale una certa cultura, in un certo momento storico, ha significato molto per Milano, che è il luogo di quella canzone. E quindi la canzone serve anche per questo.

 

Claudio, come vedi il rischio dell’idealizzazione del passato? Quando immaginiamo il passato come, diciamo, un’era che non torna più, non c’è anche un po’ un effetto distorcente, in positivo, del ricordo?

Il rischio c’è, e spero di averlo evitato. Tante mie cose arrivano dal passato, ma quello che cerco di evitare è il passatismo, che non mi interessa. Se non diventa un meccanismo ideologico, è un modo per tenere vivo qualcosa che ha un significato, e quindi dargliene uno nuovo, se si può…

 

…come hai fatto tu col bluegrass, per dire…

Esatto! Vedi, quel mondo legato a Ilzendelswing, è un mondo dove torno, e guardacaso è un repertorio particolarmente legato al folk, per tornare a quello che dicevamo…

 

Tu hai fatto quel disco autoprodotto, domestico, durante la pandemia, che si chiama Contemporaneo, in cui dici la tua sul presente, ed è uno sguardo che è molto più dolente quando guarda il presente che quando ricorda il passato, se si può dire così.

Sì, io non invidio i vent’anni dei miei figli e dei ragazzi di oggi, nel senso che credo che i miei vent’anni siano stai un’età in cui tutto era crescita, era futuro che avevi davanti, c’era speranza, voglia, energia. Oggi siamo in una situazione molto più complessa e difficile. E quindi, in particolare la canzone “Contemporaneo”, è un atto d’accusa nei confronti di questi tempi insani. È il mio stato d’animo davanti a quello che sta accadendo, che già accadeva qualche anno fa e di cui oggi vediamo l’escalation. Io non sono molto portato a scrivere canzoni esplicite a sfondo sociale, ma quella è uscita così. Mai dire mai.

 

Beh, è anche vero che quando si parla di luoghi, lo sfondo sociale come dire, emerge per forza…

Sì, anche se io lo guardo sempre attraverso le storie individuali. Non scrivo mai cercando di vedere una massa di persone, ma sempre un individuo. Per me sono importanti gli individui, che siano uomini, donne, bambini, ragazzi, anziani… nelle mie canzoni non c’è mai uno sguardo troppo largo, cerco di guardare il particolare, che poi può dare un’idea più grande di quello che c’è intorno…

 

Pensando all’Officina degli accordi, intanto mi piaceva la scelta della parola “officina”, con quel suo senso artigianale. Ultimamente mi sono messo a studiare abbastanza a fondo un paio di canzoni tue, ma devi sempre andare a cercare qualche tuo video per capire, perché si tratta di accordi spesso non molto codificati. Una volta ti domandai qual è quell’accordo lì che fai su “Agosto” e tu mi dicesti “che cazzo ne so!”

È la verità! (Ridiamo)

 

Devo crederti, anche se continuo a pensare che quando tu dici che non conosci l’armonia, ci prendi tutti in giro e te la ridi, perché “Stile libero” è una canzone piuttosto complessa; quando guardo quella progressione di accordi faccio fatica a pensare che chi l’ha scritta non dico non sapesse cosa stava facendo, ma insomma che non avesse in mente una qualche teoria per metterli insieme…

Mettiamola così: io non so minimamente i nomi degli accordi, a parte quelli basici: Do maggiore, Do minore, Do 7… Do minore 7, va bene. Poi tutti i rivolti, tute le posizioni che non sono posizioni standard non so da che parte stanno. Io sono un autodidatta selvaggio ma molto, come dire?, immerso dello strumento… tutto deriva quei primi otto o dieci anni in cui ho iniziato a suonare — quindi da metà anni ’70 fino a metà anni ’80, un po’ da solo, poi un po’ tirando giù le canzoni dai dischi — e devo dire di avere un ottimo orecchio, di essere sempre stato uno svelto in questo. Poi ho cominciato a suonare con chitarristi molto bravi, che mi hanno permesso di mettere gli occhi anche sulle loro mani. Ho messo insieme tutto questo arcipelago di cose, di suggestioni sonore, di accordi strani. Imparavo una posizione difficile, magari non sapevo cosa fosse, però poi quella mi dava modo di ripartire da lì, spostando un dito per volta, per capire cosa poteva succedere. E allora catturavo un’altra posizione che mi apriva altre strade. Ho una memoria scarsa per tante cose, ma quella musicale è piuttosto buona e tutto quel bagaglio lì è entrato nell’armadio. Io poi sono considerato uno che armonicamente fa cose di peso…

 

…è vero, su questo non c’è dubbio!

…so cosa sto facendo, ma non chiedermi cosa significa su un pentagramma.

 

È quello che intendevo, non posso credere che tu non abbia una teoria per codificare quello che fai, solo non è quella codificata. E poi non trascuriamo un orecchio temprato all’ascolto dei brasiliani…

Quella è stata una scoperta pazzesca, a fine anni ’70. Io da tre o quattro anni avevo cominciato a suonare ascoltando certamente la canzone d’autore italiana — c’erano cose in quegli anni parecchio belle — e poi tutta la musica che veniva soprattutto dagli Stati Uniti e dall’Inghilterra, che vuol dire Cohen, Dylan, James Taylor, Joni Mitchell, David Crosby, John Martyn, Nick Drake, Van Morrison… Neil Young, tutta quella roba lì. Poi verso il ’78 o ’79, insieme alla scoperta del jazz ho cominciato quasi contemporaneamente a comprare i dischi di bossa nova. Oltre ad aver comunque sempre avuto anche un po’ di amore per un certo tipo di musica classica.

Quindi in quegli anni lì, dopo la ballad anglofona, ci sono la bossa, il jazz, un po’ di musica classica e poi i dischi di Piazzolla, il tango, il fado… insomma, tanti generi. Io non sono mai diventato uno specialista di nessun genere, li ho approfonditi alcuni di più altri di meno, ma sono sempre stato come l’ape che vola di fiore in fiore…

A proposito di generi, all’inizio del tuo libro discuti della figura del cantautore, citi al riguardo De André, Mario Luzi… Ora, certamente la canzone d’autore non è un “genere” per come li intendiamo — non lo è come, che ne so, il jazz o l’heavy metal — però sai, neanche si può dire che non sia un oggetto identificabile… è un po’ come il tempo per Sant’Agostino, no? Se non mi domandi cos’è lo so, se me lo domandi non lo so… è un cantautore Silvestri? E Lucio Corsi?

In effetti “canzone d’autore” è un pleonasmo, perché se c’è una canzone vuol dire che qualcuno l’ha scritta (ridiamo)…

 

Sì, magari è ignoto ma c’è!

Ti direi che a questo punto, dove i generi si sono mescolati, non mi importa più di tanto capire cos’è la canzone d’autore. Però come si sa, e come ricordo nel mio libro, la definizione di cantautore ha un inizio preciso, più o meno intorno agli anni ’70, perché in quel momento cominciavano a nascere espressioni musicali che erano in qualche modo dei segni di rottura rispetto a quello che la canzone italiana aveva prodotto prima. Dopodiché — ti parlo come se fossi uno storico della canzone, ma non lo sono… — negli anni successivi, che sono quelli in cui ho messo insieme i primi accordi e ho imparato il giro di Do, c’è stata la fioritura massima della canzone d’autore italiana. Poi ci sono state cose bellissime anche dopo, ma se uno dice “studiamo la musica italiana, però circoscriviamo un periodo”, io dico dal 1972-73 all82-’83, e già vado un po’ in là. Sennò potrei dire dal ’68–’69 al ’78-’80. E di lì quella storia va avanti, e io sono figlio di quella storia, magari non per tutto il repertorio ma per gran parte.

Dopo, dalla fine degli anni ’90 in poi, le cose cambiano, e molto. Entrano in quel territorio delle espressioni che vengono considerate canzoni d’autore come Silvestri, che è un crossover. Potremmo dire pop d’autore? Però anche la canzone d’autore, alla fine… anche De Gregori è pop. Che non ha un’accezione negativa, vuol dire popular, come la popular music, tutto ciò che passa per radio, oggi Spotify, tutto quello di cui la gente fruisce. Poi nell’ambito della musicologia, popular riporta a riferimenti storici precisi, e torniamo al folk.

Definire queste cose è diventato veramente difficile, è un magma… Io credo di essere abbastanza vicino a quell’idea di canzone d’autore di quel periodo là, perché è là che mi sono nutrito quando ho cominciato a suonare, e tutto sommato si vede che uno come Lucio Corsi, nonostante abbia trent’anni meno di me, ha cominciato probabilmente ascoltando quella roba là. Con grande ritardo, anche lui si è bevuto quel tipo di ispirazione lì…

…a proposito di cose durevoli

Certo. Come dire che la canzone d’autore più nobile è quella che cerca di essere qualcosa che resta e che non si brucia nell’arco di un mattino, insomma…

 

Ma secondo te si rischia di essere estremisti delle catalogazioni se si dice che il filone del “songwriter” o del “folk singer” che si accompagna con la chitarra è un genere con una sua storia e una sua grammatica? Dove poi magari ci stanno tante cose diverse, come Lucio Corsi…

Sono d’accordo con te, casualmente i cantautori che mi hanno dato di meno dal punto di vista ispirativo, guarda un po’, sono quelli meno bravi a suonare. Ti dico due nomi che sono due numi tutelari della canzone, ma sono quelli che, dopo i primi anni, ho smesso di ascoltare perché dal punto di vista puramente musicale non mi trasmettevano niente di interessante, con le solite eccezioni. Uno è Guccini e l’altro è Vecchioni. Con tutto il rispetto, il mio non è un giudizio di valore. Dico solo che, per il mio modo di scrivere, mi sono sentito ispirato da cantautori che usavano lo strumento in modo diverso. Da quel punto di vista secondo me è più importante Concato! Oppure uno come Finardi, che non sarà un grande chitarrista, ma dal punto di vista delle idee musicali è molto forte.

 

…anche perché c’è un Finardi che non conosciamo molto, se non da quel gospel voce e chitarra nel doppio album del concerto per Demetrio Stratos, ma quella dimensione gli è abituale, e la racconta bene Lucio Bardi che all’inizio della carriera lo frequentava da vicino…

È vero! E poi ti dico Dalla, che con la chitarra non c’entra molto, perché, a parte qualche canzone, non è replicabile con la chitarra. Potrei farti a memoria dieci canzoni di Guccini, perché a quindici anni cantavo quelle; Dalla no perché era più complicato, era più arrangiato, però mi ha lasciato di più. E Claudio Lolli? Non era un grande chitarrista, però ha scritto delle canzoni e dei dischi, fino a Disoccupate le strade dai sogni, dove ci sono, dal mio punto di vista soprattutto in Canzoni di rabbia, delle tessiture musicali, degli arrangiamenti che esprimono un’attenzione profonda alla parte musicale. Quella è la roba che mi ha sempre affascinato. In quegli anni in cui iniziavo a suonare e a scrivere i miei riferimenti italiani erano soprattutto De Andrè, De Gregori, Jannacci, Paolo Conte, e poi Fossati, Pino Daniele… Anche Bennato, che non è particolarmente vicino al mio mondo, a distanza di tanti anni mi resta più di altri…

 

Bennato peraltro la chitarra la capisce e ha sempre valorizzato i chitarristi… ma a proposito di chitarristi, ce n’è uno che è diventato anche un personaggio di una tua canzone, sta nel libro e ti è stato vicino per un bel pezzo di storia…

Eh sì. Quando ti dicevo che la mia predisposizione alla parte chitarristica e musicale si è rivelata sempre più importante, è anche perché a vent’anni ho avuto la fortuna di incontrare in una casa milanese Francesco Saverio Porcello, da lì abbiamo cominciato a suonare insieme e gli ho rubato un sacco di accordi (ridiamo). Ho imparato a suonare guardando tanto Savè, che in quel periodo suonava tante cose provenienti dal mondo della bossanova, per me era tutto preziosissimo. Ci siamo fatti delle suonate incredibili. Ci trovavamo a fine pomeriggio, ci facevamo uno spaghetto e poi fino alle tre di notte si suonava.

 

Claudio, quando scrivi, lo dico sia in senso musicale che letterario, salta spesso fuori il calcio. Personaggi come Gianni Brera sono ricorrenti, a partire dal “cratere di vino nero” citato in “Agosto”. Forse al di là del calcio in quanto tale c’è qualcosa nel calcio come narrazione…

…ti dirò di più: nello sport in generale. Perché mi è capitato di scrivere anche di ciclismo…

 

…già, anche sul libro c’è Pantani e “Il Pantadattilo”, la canzone che hai pubblicato l’anno scorso…

…da una poesia di Gianni Mura, sì. Poi di automobilismo, di boxe… alcune canzoni sono inedite, ce le ho nel cassetto, ma ho scritto di tanti sport. Il calcio magari è un po’ più presente, perché sono un calciofilo, magari un po’ deluso, un po’ stanco di un mondo che, al di là della mia fede milanista — saprai che in questo momento il Milan non va tanto bene… — sta diventando una cosa molto diversa da quella che mi ha appassionato per tanti anni.

Il calcio è uno sport che capisco molto bene, l’ho giocato, mi piace, in generale però lo sport è un riferimento meraviglioso, perché le storie degli atleti sono coinvolgenti, sono metafore di vita che possono trasmetterti qualcosa di epico. Riescono a trasferire nei testi di certe canzoni un’apertura, questa dilatazione di senso in cui puoi ficcare dentro pensieri, storie e stati d’animo, il mio modo di scrivere canzoni è quello, e questo mio libro cerca di restituire al lettore questo modo di sentire e di fare.

Di Max Giuliani