Intervista a Daniele De Gregori

Daniele, in passato tu hai fatto altri mestieri, anche contemporaneamente alla musica. Cos’è che ha fatto vincere la canzone? Cos’è che hai sentito di irresistibile nello scrivere e nel cantare?

Le canzoni sono sempre state il mio canale di comunicazione fin dal liceo e sono anche oggi il modo in cui tento di realizzare me stesso. Hanno accompagnato gli anni dell’università e dei tanti lavori fatti, rendendoli in qualche modo sopportabili. Le circostanze della vita poi sono davvero imperscrutabili e alcune di queste hanno fatto in modo che io da un certo momento mi occupassi solo di musica. Il resto però lo facevo per sopravvivere economicamente. Si potrebbe dire che da sempre sono un cantautore, ora lo faccio anche.

 

Se penso che il titolo del tuo ultimo album è Cura mi viene da domandarti se in qualche modo la musica abbia fatto parte di qualche tipo di cura per te, qualunque cosa si intenda…

La musica in generale è sempre stata uno spazio privato e di conforto già dall’adolescenza, dove rappresentava una vera e propria fuga. Col tempo è diventata strumento di autoanalisi e di realizzazione personale. Un altro pregio non meno importante è stato quello di legante relazionale, perché le migliori persone che ho conosciuto nella vita sono legate a questo campo. Quindi sì, è la mia terapia primaria.

 

Parlando di Cura, che è un album sulla fragilità, individuale e collettiva: come senti che risponde il pubblico quando ti sente parlare dell’importanza del prossimo, quando canti che non ci si salva da soli? Te lo domando pensando al fatto che la dimensione collettiva è un tema che non gode di particolare simpatia da un po’ di tempo…

Proprio perché questo non è esattamente il momento storico favorevole alla coscienza collettiva è necessario tenerne in vita il principio. Non esiste cultura, diritti né società civile senza il valore di collettività. Il pubblico poi è un’idea abbastanza astratta, non saprei sintetizzarlo. Spesso ci si appoggia alla psicologia delle masse per capirlo ma io cerco di non cascarci troppo. Percepisco comunque molta recettività sulla sfera emotiva, sulla fragilità, molto meno sulla sfera politica che riguarda i nostri doveri etici.

 

Ma tu hai l’impressione che la musica soffra di questo disinvestimento della dimensione collettiva, politica, direi conviviale in senso ampio?

Certamente è questa la direzione della nostra contemporaneità, la chiusura in se stessi, l’ego bulimico, la depressione che ne deriva. Perché la felicità non si raggiunge in solitaria. Anche la musica, così come ogni forma d’arte o di intrattenimento segue questa freccia e spesso si adegua. Si è abbassata notevolmente l’asticella dell’attenzione e soprattutto dell’ambizione. L’ambizione di trovare nell’arte il sublime, o almeno di trovare l’altro, qualcosa di sconosciuto che possa stupire, sconvolgere, ribaltare una prospettiva.

Sai, la prima volta che ho ascoltato “Luglio e Milano”, che dichiara forte il tema che percorre tutto l’album, ho pensato a “We Take Care of Our Own” di Bruce Springsteen, che dopo un disastro collettivo parla di quanto sia difficile ma anche di quanto sia necessario pensare che ci si salva se ci si aiuta reciprocamente…

Certamente il tema è vecchio di secoli, almeno un paio ormai. “Luglio e Milano” è un brano totalmente autobiografico col solo ritornello “universale”. Era la frase che mi ripetevo una sera, su una terrazza, accanto ai miei amici musicisti. Una piccola epifa- nia come a volte capitano nella vita. Salvarsi da soli è probabilmente possibile, certamente inutile.

 

A proposito di quello che viene in mente ascoltandoti, mi pare che non sia così immediato rintracciare antecedenti nella tua scrittura. Quanto ha contato per te la storia del Folkstudio, per esempio?

Il Folkstudio per me è un nome quasi mitologico, nel senso che è qualcosa di cui ho sentito sempre parlare senza mai metterci piede.
La mia formazione è duplice, vengo da una casa in cui si ascoltava solo ed esclusivamente cantautorato degli anni ’60/’70/’80…

 

…e alcuni di quelli che sono — o sono stati — al fianco di quella generazione li hai avuto in studio come collaboratori, penso a Lucio Bardi e a Paolo Giovenchi. Come si sono avvicinati alle tue canzoni?

Intanto ero da sempre un loro ammiratore. Poi mi capitò di incontrarli perché stavo incidendo il mio primo album nello stesso studio dove Francesco De Gregori stava registrando Amore e furto. Così ascoltarono i miei brani e li apprezzarono al punto da volerci suonare.
Due persone eccezionali, da allora siamo diventati grandi amici e, soprattutto con Lucio, suoniamo anche spesso insieme dal vivo.

 

 

Formazione duplice, dicevi…

Sì, ho ibridato quell’humus appassionandomi alla chitarra elettrica negli ultimi anni novanta e nei primi duemila, influenzato dalla nuova ondata rock di quegli anni, dai Red Hot Chili Peppers agli Skunk Anansie, dai System Of A Down agli Audioslave. Ma la mia lingua continuava a essere l’italiano, mi spin- gevo in un vicolo cieco perché non mi emozionavo coi testi. Però sognavo con quel sound, con le testate e cassa Marshall in sala prove. È stata una miscela che mi ha portato in posti poco catalogabili che tuttora abito. Il mio prossimo album non somiglierà affatto al precedente, come io non somiglio affatto al me di qualche anno fa.

 

E Battiato? Notavo che nella speranza che mi pare illuminare tutto l’album, a un certo punto irrompe la sua “Il re del mondo”, una specie di sommessa invettiva, un esempio del suo sguardo severo sui tempi di oggi. Come nasce questa scelta, cosa connette te e Franco Battiato?

Ero adolescente quando mio padre portò a casa L’era del cinghiale bianco e rimasi folgorato dal primo approccio con quelle canzoni che anziché toccare argomenti personali e quotidiani cercavano di spiegare il mondo tramite concetti assoluti. “Il re del mondo” è un pezzo che ha cambiato il mio approccio al mondo metafisico. Approccio che resta assolutamente laico e razionale, però mi ha dato la suggestione di un altrove e un altroquando, del potere dell’astrazione e della distanza dalle bassezze temporali.

Di Max Giuliani