Intervista a Emanuele Colandrea

Emanuele, nelle tue canzoni è come si ci fosse un dialogo continuo con una voce di fuori, quella voce di “Ok Emanuele”, che ti dice “Ok, piantala co’ ’ste canzoni e ’ste chitarre, la vita è un’altra cosa”. Chi è quella voce?

Il mio problema è che cerco di parlare con me stesso — o forse sarebbe meglio dire con “i me stessi” — continuamente. Lo faccio per cercare di creare un contesto a quello che osservo, o per provare semplice- mente a stare centrato, credo. Provo sempre praticamente a convincermi che ognuno debba fare come gli pare senza scopiazzare i modi di vivere di qualcun altro.

 

Ecco, un “te stesso” è quello con cui conversi in “Credo”: inizi con una serie di dichiarazioni di “fede”, diciamo così, e termini con un “…almeno credo”. Che mi sembra una dichiarazione di dubbio, di incertezza. Ha senso detta così? Come sei messo con certezze e dubbi?

I dubbi mi piacciono, oserei dire che sono l’unica certezza che ho — credo di aver appena inventato o scopiazzato malamente senza saperlo una frase che andrà a finire sulla mia prossima canzone! (risate). In “Credo” ho voluto immaginare la mia versione di un mondo migliore, piazzando appunto al centro la necessità di schierarsi e soprattutto di continuare ad avere dei dubbi, proprio per provare continua- mente a non rovinarlo, quel possibile mondo.

 

Tu diventi cantautore dopo l’esperienza con Eva Mon Amour e Cappello a Cilindro. Com’è andata?

Le band sono state tra le cose più belle che mi siano capitate, ho avuto la fortuna di condividerle con persone e musicisti fantastici. È stato come fondere e confondere l’amicizia, la musica e la giovinezza insieme.

 

Ma la dimensione solista ti è più congeniale? Sei legato in qualche modo alla figura del cantautore?

Sì, anche la dimensione solista mi piace molto e mi appartiene, ma se ci penso non amo forse troppo l’appellativo di cantautore.
Non ho mai capito cosa voglia dire precisamente. Se vuol dire semplicemente cantare quello che si scrive allora sì, lo sono, ma lo trovo per molti versi limitante perché spesso è una dimensione che sbilancia tutto verso le parole. Io amo di più le canzoni che hanno un modo di scorrere, non quelle con dei testi dai meravigliosi significati. Detto questo però la cosa che ancora mi fa perdere più tempo con le canzoni è comunque la ricerca dei significati, quantomeno i miei. Poi si sa, le canzoni diventano di tutti e per fortuna arrivano le sfumature e i significati degli altri.

 

Quando parli di “un modo di scorrere” immagino che ti riferisca anche al verso nella sua musicalità. Sai, in quello che scrivi ci vedo una certa ricerca delle rime, di una scrittura che “suoni”…

Più che le rime in sé mi piacciono le assonanze. Mi piace alle volte che intere frasi si incastrino, e per fare questo la rima non basta. Quello che mi capita spessissimo di fare è di tirare giù un’idea di testo usando una melodia a caso o addirittura di qualcun altro, e poi usare quelle stesse parole in un’altra canzone completamente diversa. Mi metto a modificare quello che è già scritto, e necessariamente lascio per strada qualche significato, o magari aggiungo altre parole e altri significati, per adattarlo magari alla nuova musicalità.

È così, i testi mi piace sentirli suonare, vederli rotolare. Poi ovviamente questo non dipende solo dalle parole ma anche da molte altre variabili, anche quelle fortunatamente non calcolabili. Per esempio il modo in cui le parole vengono cantate, interpretate, suonate, urlate o soffiate… e da molte altre alchimie.

 

Per quanto riguarda invece la parte musicale nelle tue canzoni spuntano occasionalmente suoni che non ti aspetti, un banjo, una fisarmonica, dei fiati bandistici, e la chitarra folk è spesso in primo piano. Tutto questo è occasionale o coincide con un panorama sonoro che ti appartiene? Mi riferisco alle musiche popolari, tradizionali…

La chitarra acustica è indubbiamente la mia leva, il mio perno, la mia zona di comfort. Nel tempo ho usato molti altri strumenti per ricercare un approccio, un mondo sonoro. Quelli a cui ti riferisci, per esempio, sono molto presenti nei brani che ho riarrangiato delle mie vecchie band. Soprattutto nei Cappello a Cilindro c’era una forte componente “popolare”. Le mie influenze forse arrivano più dal folk di Dylan o di Van Morrison, che istintivamente (perché anche questo è la musica, istinto) vado a mescolare col mio background, pieno delle radici, dell’aria e del sole in cui mi sono ritrovato a crescere e di tutte le cose che ho scelto di ascoltare. Ma anche di tutte quelle che ho dovuto ascoltare per scegliere di non farlo più!

Di Max Giuliani