
Intervista a Emilio Stella
Emilio, il 22 ottobre torni all’Asino che vola per “I giovani del Folkstudio”. Raccontami di te, non hai cominciato ieri a cantare e a scrivere…
Eh no! La prendo alla lontana: ero un bambino e mio nonno costruiva strumenti musicali — per diletto, non per mestiere. Costruiva chitarre, violini, e ogni tanto qualcuno di questi strumenti suonava, e anche discretamente! Quando avevo dieci anni mi regalo una piccola chitarra. Non sapevo suonare, ricordo che rimase per un bel po’ nell’armadio di nonna, finché un anno dopo mio nonno morì. Lui scriveva anche poesie e aveva da poco pubblicato un libro, dedicato a mia nonna peraltro — c’era scritto “dedicato a mia moglie” al centro di questa pagina bianca.
Con questa chitarra e con questo libro di poesie, un po’ per emulazione, un po’ per restare in contatto con lui, mi misi a imparare da solo i primi accordi e scrissi la prima canzone per nonno. E da lì, coi parenti che fanno “bravo!”, “che bello!”, è partito questo gioco.
Mi piaceva scrivere canzoni per gioco fin da bambino, ed è un gioco che è rimasto nel tempo. Finché in adolescenza ho cominciato a coltivare il sogno di fare il cantautore nella vita. Anche se poi la realtà si scontra- va con quel sogno: tutto bello, ma all’inizio nessun genitore incoraggerebbe un bambino a fare un lavoro artistico! Però avevo quella fiamma dentro, che alla fine è diventata un incendio e in età adulta mi ha fatto scegliere di fare questo nella vita.
Sei partito con l’attività da solista? Molti passano attraverso l’esperienza delle band…
No, sono partito da solo e poi mi sono scelto dei com- pagni di viaggio. Nel tempo qualcuno è andato, qualcun altro è rimasto…
…la fiamma era proprio quella della canzone d’autore, insomma…
Sì, sempre grazie a nonno e alla sua famiglia — strimpellavano tutti la chitarra. Nonno mi regalò nel 1987 un LP di Lucio Dalla. Ce l’ho qui, è firmato “nonno Meo a Emilio, 2 agosto 1987”. E ricordo che aveva tutte quelle cassette di De Gregori, Rino Gaetano, i cantautori del Folkstudio. Da lì fui catturato, la mia attenzione andò tutta lì.
Parlando del Folkstudio, fra gli autori di quegli anni ce n’è qualcuno che è un riferimento artistico per te, nel modo di scrivere?
Sì, Rino Gaetano è uno di quelli che mi hanno influenza- to di più. Come dire?, mi ha insegnato, ecco, mi ha insegnato a vedere il mondo, anche le cose pesanti, in maniera leggera. Mi ha insegnato a usare la chiave della leggerezza, ascoltando lui ho capito che si poteva fare. Rino Gaetano era quello più vicino alla mia anima, che si agita parecchio, come il mare, che si tormenta, però poi ho anche questo lato, passami il termine, cazzeggione. Così l’ho visto sempre come un’anima affine. Poi le origini calabresi hanno fatto sì che diven- tasse quasi uno di famiglia.

Le origini calabresi? Qual è il collegamento con te?
Anche nonno era calabrese. Io sono un romano con qualche goccia di sangue calabrese, Rino calabrese con un po’ di sangue romano.
Ah, ecco!
…e poi oltre a Rino anche De Gregori, beh, ognuno di quel periodo ti lascia un semino a germogliare dentro. De Gregori il semino della poesia. E poi Stefano Rosso, ce ne sono tanti… è stato un periodo che mi sarebbe piaciuto vivere.
Quanti anni hai?
Quaranta, fra poco quarantuno.
Beh, facendo due conti…
…L’ho quasi sfiorato nella fase finale quel periodo, nella coda… Considera che avevo diciotto anni nel duemila, duemila e uno…
Già. Mi dicevi della leggerezza nel cantare di certi temi. Ecco, a proposito dei temi, tu sei uno che racconta le periferie. Quei contesti e quell’umanità che nelle canzoni si trovano poco…
Sono cresciuto alle case popolari. La definisco la periferia della periferia, non è neanche Roma, Pomezia è il primo comune a sud di Roma. Sono cresciuto in quelle case costruite negli anni ’80 dove mandarono le famiglie romane in attesa di un alloggio popolare: Tor Bella Monaca, Tor Marancia, quei quartieri che diventavano una periferia della periferia. Un quartiere di Roma che non è più Roma! E ho respirato l’aria della borgata a Pomezia fin da piccolo, son cresciuto lì. E che fa un cantautore?, racconta quello che vive. Se fossi cresciuto in un’altro contesto sociale avrei raccontato quello…
…e il tuo racconto è attraversato da una forma di nostalgia certe volte. È così?
Penso a “Maledetto tempo”, penso a “Il calcio figlio del popolo”… come se cantassi qualcosa che nel presente non trovi più.
Beh, la nostalgia ha sempre a che fare con la spensie- ratezza che hai da bambino. La canzone che hai citato parla del calcio giocato giù in cortile, la corsa dietro a un pallone.
Chi è che non ha quella nostalgia? E poi nonostante abbia fatto delle scelte di vita da persona grande — sono andato via da quel contesto, per scelta — alla fine le radici sono sempre le radici. Sento una forma di attaccamento viscerale verso quei posti, nonostante tanto degrado, nonostante ci sia tanta povertà, nonostante siano realtà difficili. In quei contesti ho trovato sempre molta poesia.
Tanto cemento, ma il fiorellino che cresce accanto all’immondizia mi ha sempre commosso. È il contrasto che trovi in questi posti, c’è la disperazione ma anche il riscatto, e anche tanta speranza. Persone che nono- stante le difficoltà riescono ad emergere da questi contesti…
E tu questi contesti li racconti non solo attraverso la canzone, ma anche attraverso una forma di teatro canzone…
Sì. Da poco, da un anno circa, ho messo in piedi uno spettacolo tutto ambientato nel baretto sotto casa. Nasce da un’idea che Simone Cristicchi ebbe qualche anno fa. Sentì “Alle case popolari”, che parla proprio del posto in cui sono cresciuto, e mi disse “sai che da questa canzone potresti tirar fuori uno spettacolo? Potresti dare vita a tutti quei personaggi”. Ci sono voluti dieci anni (ridiamo), però piano piano mi sono anche allenato con degli attori, perché un conto è fare i cantautori e un conto è recitare, anche se si racconta se stessi. Bisogna saper mettersi a nudo.
E così da un po’ di tempo porto in giro questa cosa che ho scritto, diretto e interpretato. Devo dire che è anche una forma di autoanalisi — te lo dico in confidenza, a volte è come se stessi risparmiando i soldi dello psico- logo (ridiamo). Racconto me stesso, racconto un capi- tolo della vita che si chiude.
Mi servo di questo spettacolo per dare un contenitore a tutte quelle mie canzoni dialettali che hanno una radice folk popolare romana, e così le differenzio da un’altra parte di me, che è prevalente ma è meno cono- sciuta, e che è più italiana e cantautorale. Meno folk e più pop, se vogliamo…
In che senso “pop”?
Sì, magari non è la definizione più precisa, ma voglio dire che oltre alla canzone popolare romana credo di avere molto altro nel mio bagaglio musicale, che non è strettamente legato al territorio, alla periferia. Magari ha più a che fare con le periferie dell’anima…
Ecco, lo spettacolo mi serve anche a chiudere un capi- tolo e a guardare avanti. Oggi vivo al mare…
Oh, sei sulla costa?
Sì, sto a Torvaianica.
Dicevi che attraverso questo spettacolo ti conosci. Dimmi di più.
Mi riferisco al fatto che quando si cambia prospettiva le cose si vedono meglio. Ecco, quando ero alle case popolari non avrei avuto il coraggio di fare questo spettacolo, perché ci ero dentro. Quando me ne sono andato ho avuto una visione più ampia di quello che era un altro teatro. E così ho potuto portarlo in scena. Ogni volta è come sfogliare un album di fotografie, o come accendere un riflettore, un occhio di bue su quelle persone dimenticate, su figure come la gattara, l’acca- ttona, lo scemo del palazzo, le persone che vivono una vita ai margini. E attraverso loro raccontare anche me.
Emilio, abbiamo parlato dei temi che ti ispirano.
E dal punto di vista strettamente musicale quali sono i tuoi modelli?
Ti dicevo di De Gregori e della poesia. Sono appassionato di poesia, scrivo, e forse qui torniamo ancora a nonno e a quel libriccino di poesie. De Gregori l’ho praticamente studiato, e anche De André. Musical- mente vado in maniera abbastanza naturale verso quelle influenze, quel tipo di cantautorato. Poi faccio le mie ricerche, e mi piacciono tantissimo i suoni del djembé, i suoni africani — forse in un’altra vita ero africano? Però è una parte che sento di non aver mai espresso appieno…
…eppure quando arrangi un po’ di più si sente l’amore per il reggae…
…infatti, ci stavo arrivando. Da ascoltatore, magari mentre faccio le pulizie di casa, o semplicemente quando sono in spiaggia, il reggae è una musica che mi prende bene…
…ha a che fare col sole e la spiaggia insomma…
Eh sì, io so’ di mare, anche Pomezia aveva il mare. L’altro nonno aveva un negozio sul lungomare. Sono cresciuto dentro questo negozio di giocattoli. È il sogno di ogni bambino, un negozio di giocattoli con il mare davanti (ridiamo).
Sì, immagino di sì. Senti, domanda convenzionale: a cosa stai lavorando, cosa c’è nel futuro?
In questo momento sto suonando tanto, perché poi sto seguendo questo progetto, mi sono ripromesso di suonare fuori Roma. E da un anno, un anno e mezzo, da quando ho diversificato quello che faccio con lo spet- tacolo di teatro canzone, ci sto riuscendo…
Cioè il romano “parlato” ti permette di uscire da Roma, mentre il romano “cantato” ti configura come più “popolare”, locale…?
…che poi è parlato fino a un certo punto, perché è parlato e cantato. Mi ha permesso di uscire perché a Roma ho sempre suonato tantissimo, veramente ovunque, per tanti anni. E arriva il punto che dici ok, un po’ di pubblico a Roma ce l’ho. Bisogna rinnovarsi, perché rischiare di fare una ripetizione di cose già fatte? Magari per quelli fuori è una cosa nuova, così fuori porto il live, mentre lo spettacolo di teatro canzone è cominciato per Roma. Per il mio pubblico romano quella cosa in chiave teatrale era nuova, e adesso sta funzionando anche fuori. Così c’è il live voce e chitarra, c’è quello con la band, c’è il teatro canzone e c’è uno spettacolo di musica e poesia con Er Pinto. È un poeta romano, uno street artist con cui collaboro. È soprattutto questa possibilità di diversificare che mi sta aiutando ad andare fuori Roma.
Dunque stai suonando molto in giro.
Per il momento sono in tour e sto anche scrivendo molto. L’obiettivo è riposarmi sotto dicembre, fare mente locale, probabilmente c’è un libro di poesie che vorrei far uscire. E un disco lo vorrei tanto, e lo sto preparando, ma oggi come oggi bisogna avere le risorse per farlo, non mi va di buttarlo, ecco, non so ancora.
Anche se i tuoi album e i video mi pare contino su un discreto investimento di energie, i video sono pieni di gente…
Sono un po’ fatti in casa. Magari alcuni anche fatti bene, da professionisti, altri sono davvero fatti in casa, sono più legati a un po’ di anni fa. Oggi quella squadra non c’è più, le cose cambiano, le persone crescono… In questo momento sto cercando di riallestire una squa- dra nuova, sto cercando una struttura. Perché da soli va bene, ma poi, come si dice, l’unione fa la forza. Servono le risorse economiche, perché altrimenti c’è da diventare pazzi. Discograficamente oggi è molto difficile riuscire a dare un valore a cose come quelle in cui credo, che hanno un contenuto.
Di Max Giuliani