
Intervista a Fabrizio Emigli
Ciao Fabrizio, partiamo da un po’ indietro? Comincio con una domanda storica. Tu hai attraversato esperienze che hanno un filo conduttore, dal Folkstudio a quello che fai oggi come organizzatore. Difficile non pensare al contesto in cui queste cose sono nate, Roma è stata una città davvero internazionale, il punto di incontro di una rete di artisti di tutto il mondo in cui è nato il Folkstudio. Cos’è successo poi? Cosa è cambiato? Intendo nella città, prima che nella musica…
Tantissime cose sono cambiate. Credo in primo luogo la voglia, l’esigenza di aggregarsi, di vedersi fisicamente per raccontarci le nostre storie. Non necessariamente quelle riguardanti la politica, la società, l’impegno ma anche le storie minuscole personali. Cercando di non cadere nel nostalgico — e non mi definisco di certo una persona che soffre di nostalgie di qualche tipo — si leggeva tantissimo, esistevano le librerie e i circoli di lettura, ci si confrontava sulle cose lette, riempivamo i cinema (“seguirà il dibattito”…). Non c’erano le piattaforme televisive e avevamo la sensazione che alcuni film, alcuni libri, alcune canzoni avessero addirittura la capacità magica di migliorarci l’esistenza. Con molta probabilità avere sullo sfondo una città come Roma faceva sì che tutte queste passioni assumessero naturalmente tinte forti, le strade notturne, all’uscita dai locali dove si faceva musica, i dopocinema e i dopoteatro, diventavano a loro volta lo scenario naturale e fascinoso dei nostri pensieri. Di sicuro si parlava anche un po’ troppo…
A proposito del Folkstudio, non possiamo non ricordare che sei il custode della famosa campanella…
Il “boss” Cesaroni, che sembrava a volte burbero e disattento, in realtà registrava tutti i concerti che passavano al Folkstudio (il suo ufficio era sommerso dalle cassette). Oppure si metteva in ascolto, in piedi, sbucando da una delle tende della platea. La prendeva in modo cauto e riservato, iniziava a chiedere chi ti fosse piaciuto dei “giovani”, e perché: E poi ti telefonava proponendoti di seguire la direzione artistica dello spazio giovani domenicale.
Per più di una stagione (a via Sacchi e poi a via Frangipane) mi occupai dei Giovani, fino all’ultima stagione del Folkstudio.
Quando Giancarlo morì e si fondò l’Archivio Folkstudio grazie a Luciano Ceri, io avevo iniziato a cercare in giro per Roma altri spazi nei quali dirottare quella magnifica esperienza. In una sede di Monteverde, dopo aver girovagato per pub, ristoranti, palestre, trovammo il nostro luogo ideale e fondammo l’associazione culturale “Sopra c’è gente”. Venivano a trovarci Luciano Ceri, Giorgio Lo Cascio, Luigi Grechi… Un bel giorno ci arriva una lettera dall’Archivio nella quale si attestava che il vecchio mixer appartenuto al Folkstudio, alcune scatole di LP e cassette realizzati da Giancarlo Cesaroni e la storica campana, venivano assegnati alla nostra associazione, meritevole di aver continuato l’esperienza domenicale nata al Folkstudio.
La campana mi seguì negli anni successivi. Organizzai con Alfredo Saitto la prima rassegna “Per chi suona la campana” al Classico di via Libetta, poi ci spostammo nella sede del Teatro Arciliuto, fino ad arrivare nello spazio di cui sono direttore artistico che è, appunto, l’Antica Stamperia Rubattino.
Di solito pensiamo al Folkstudio come a una fucina di cantautori, e in parte è così. Però i cantautori stavano dentro un insieme più grande, c’era il folk, c’era il jazz, c’era il teatro… tu oggi sei un cantautore, ma sei anche uno che sta nella musica a 360 gradi, nel tuo curriculum c’è il cinema, c’è la pubblicità… quanto ha contato nella tua formazione quella esperienza dove i confini erano così “fuzzy”?
Son sempre stato un ingordo di musica, di ogni tipo e genere musicale. Per usare un parolone forse un po’ </ span>abusato, credo che la musica mi abbia salvato la vita, e gliene sono grato.
C’era un motivo generazionale — ero di qualche anno più giovane degli “storici” del Folkstudio — e poi c’erano le caratteristiche del genere di cose che scrivo, mai completamente d’autore (secondo alcuni) e mai da considerarsi “pop” (secondo altri), per cui non ero considerato un cantautore “da Folkstudio”…
Come la prendevi?
Non che la cosa mi infastidisse, anzi, un po’ mi intrigava. Ascoltatore onnivoro, non avevo timore a raccontare il mio amore per Battisti — e al Folkstudio quasi non si poteva parlare di Battisti & Mogol — mi nutrivo a pane e degregori, vino e deandré ma capivo che potevo attingere anche e soprattutto da altri musicisti italiani (Fossati su tutti ma anche gli “scandalosi” Baglioni, Cocciante, altri ancora) o stranieri, come Elvis Costello, Donald Fagen e qualche anno dopo Rufus Wainwright.
Mi pare quasi programmatico che sull’ultimo album la canzone di apertura, “Non trovo pace”, si ritrovi poco più avanti reincisa con l’orchestra. È come dire “mi trovi qua ma anche là, non sono solo quello”…
Non riesco, ma forse non voglio, essere selettivo ed escludente in tema di arte. Mi ripeto: sono un ascoltatore curioso e onnivoro e di sicuro tutti i miei ascolti (e le letture) si riversano poi nelle mie canzoni.
Si sente che nella tua musica i riferimenti a quel cantautorato si mescolano a parecchie altre storie. Sarà una questione di timbro vocale, ma nelle tue cose più intime, come “Abbracciami”, mi sembra di sentirci persino Bruno Martino…
Io amo i “contaminati” (Beatles, Avion Travel, Ivano Fossati, Sting, Lucio Dalla, Paul Simon) che son riusciti, molto molto molto meglio di me, a fare una sintesi della musica che era nell’aria, di quella che “girava intorno”…
…è una bella definizione…
Se devo aggiungere qualche nome in più ti dico anche Brad Mehldau, Giorgio Gaber, Nino Buonocore, Niccolò Fabi…
A proposito della tua versatilità artistica, le mie figlie non me lo perdonerebbero se non ne parlassimo: dimmi dell’esperienza con Tim Burton…
Frequentando molte sale d’incisione e di produzione cinema e tv (ho scritto e cantato parecchi jingle e spot radio tv e un paio di sigle di cartoni animati) capitò di scrivere l’adattamento in italiano di una canzoncina breve contenuta nel film Before Sunset. Qualche anno dopo la Warner mi propose di scrivere gli adattamenti in italiano delle canzoni contenute nei film La Fabbrica di Cioccolato e La Sposa Cadavere. Dopo che inviai i provini dove cercavo di canticchiare i brani, la produzione mi propose di dare le voci — da solo! — a tutti i nanetti Oompa Loompa. Fu un lavoro enorme e divertentissimo (mi fu di aiuto aver composto le musiche e i testi, anni prima, per alcuni musical per il Festival del Teatro Ragazzi di Roma).
E per La sposa cadavere?
Per quello scrissi solo i testi in italiano di tutte le canzoni ma seguii il lavoro in sale dei doppiatori, dei cantanti e del coro.
Quante cose hai fatto… senti, e come mai come cantautore sei così parco di pubblicazioni? Cosa ti fa decidere di entrare in studio?
Entro in sala solo quando credo di aver qualcosa da dire e raccontare ma, soprattutto, quando devo mettere ordine tra le cose scritte, registrate. Fare pulizia per poi ripartire dal leggio completamente sparecchiato e intonso. Solo così nascono nuovi brani.