Intervista a Giovanni Block

Ciao Giovanni, ci incontriamo in un’occasione che ha a che fare con la storia del Folkstudio, ma la tua vicenda artistica non passa dal folk, tu vieni da una formazione accademica…

Ho cominciato come flautista quando ero piccino, sono entrato nel Conservatorio a Napoli nel 1998. Era il conservatorio di Roberto De Simone. Era diverso da oggi, non c’erano le lauree, agli esami di ammissione si presentavano in cento e ne prendevano due o tre per classe. Era difficile, anche un po’ più antico se vuoi. Quindi iniziai a suonare il flauto traverso in varie orchestre, poi in qualche modo mi distaccai da questo mondo di esecutori di un programma che si reitera secolo dopo secolo. Sebbene la ami profondamente e abbia tanto ascoltato e studiato quella musica, non mi piaceva l’idea di vivere eseguendo e interpretando qualcosa di decontestualizzato. Suonare Vivaldi nel 2000 è una decontestualizzazione, e in un certo senso è diventato una pratica elitaria.

Quindi ho battuto altre strade, anche lasciando il flauto, e ho cominciato a studiare composizione. Mi serviva per scrivere canzoni, per poter arrangiarle, per controllarle sia armonicamente che melodicamente. Ho studiato composizione principalmente per lavorare in libertà alle mie canzoni.

 

Dunque il grosso del lavoro è tuo, è fatto in autonomia…

Sì. Ho tagliato la maggior parte dei costi di produzione, infatti sono molto amato dalle produzioni (risate) perché con me risparmiano arrangiatore, produttore artistico, direttore artistico, orchestratore d’archi e scrittore di partiture.

 

E come mai fra le strade possibili che si aprivano la principale è diventata la canzone? Non l’unica certo — scrivi per il teatro e non solo — ma come mai la principale?

È quella che sostanzialmente mi riesce meglio. Nel mio cervello io dialogo con me stesso così. Quando sono in motorino o in auto, e scrivo nel mio cervello, scrivo canzoni. Vai a spiega’ perché! La musica strumentale, per quanto mi riguarda, ha sempre bisogno di stimoli esterni: ti chiedono un brano pianistico o orchestrale per un film su quel tale argomento, o con quei colori, e tu ti lasci ispirare da quello che ti viene richiesto. La canzone no. La canzone non accetta richieste, è qual- cosa che nasce profondamente dentro di noi. L’unica richiesta a cui è soggetta è quella del suo creatore…

 

Ecco, questo si sente forte in Retrò, il tuo ultimo album.

Ti è piaciuto?

 

Molto. L’ho trovato densissimo, perché si sente quella esigenza di cui parli — d’altra parte arriva a sette anni dal pre- cedente album di canzoni, giusto?

Certo, io mi prendo molto tempo per scrivere un album, perché non voglio assolutamente sottostare ai diktat del mercato e del capitalismo musicale. Sono totalmente convinto che bisogna disconoscere questi meccanismi per ritrovare una umanità della musica.

Dunque i tempi del tuo lavoro sono essenzialmente i tuoi tempi, quelli dei tuoi desideri e della tua voglia di scrivere e di suonare…

Esattamente.

 

Pensavo una cosa che forse c’entra con quello che dici: Retrò già a cominciare dal titolo sembra avere a che fare col tuo rapporto col tempo. Anche col tempo in cui vivi. C’è un accenno alla condizione della generazione dei quarantenni… sembra l’album di un uomo che sente di vivere controtempo, non so se ha senso detta così…

È sicuramente un album che punta il dito al pubblico e richiama l’attenzione nei confronti di una generazione scomparsa, sparita dai radar. È la mia generazione, quella dei quarantenni. Non siamo stati dei boomer, non abbiamo goduto i benefici di un boom economico, eppure siamo chiamati boomer da questi quindicenni. Siamo stati colpiti due volte dalla sorte, e allora ho voluto dire “guardate, non solo non siamo spariti, ma siamo forse l’ultima generazione che può dare un senso analogico alle cose, visto che vi state trasformando tutti in mostri digitali”.

 

È la generazione che è stata adolescente nel berlusconismo…

Sì, ma è anche la generazione che aveva genitori con le cassette di Dalla, di De André, capisci? In quelle vecchie automobili c’erano ancora quelle cassette, piccoli lumi di sopravvivenza di una cultura che in Italia è stata volutamente affossata. Mi spiego? Sciente- mente i cantautori sono stati fatti fuori, perché rappresentano una forte forza pedagogica della musica nei confronti di un popolo.

 

Me lo diceva, con accenti molto simili, anche Luigi Grechi: un’operazione culturale che ha scientificamente eliminato i cantautori…

E certo! Il cantautore è quello che anche quando canta dell’amore mette in mezzo faccende che riguardano la politica. È un amore che si trasforma in un messaggio collettivo, e dove c’è collettività, dove c’è l’interesse di tanti, le cose si fanno naturalmente politiche, diventa- no naturalmente sociali, diventano naturalmente di tutti. Invece — non basterebbero mille interviste, avrei molto da dire su questo — si è voluto portare il discorso artistico a ruotare intorno all’ego, ai personalismi, alle piccole storie quotidiane d’amore: io qui, ora, la mia vita, le mie situazioni. Mi spiego?

 

Certo che ti spieghi.

E così porti intere generazioni a ragionare in questo modo. Nell’epoca dei social ognuno è l’idolo di sé stesso, proteso alla costruzione del proprio copione di vita. Si è colpita deliberatamente la collettività, un’idea di collettività.

 

Fra l’altro in Retrò fai una cosa che non si permette quasi nessuno: in uno degli spunti politici più espliciti te la prendi con la meritocrazia. Non è facile dire qualcosa di dissidente sulla retorica della meritocrazia, che è vincente da destra a sinistra. Come si fa a parlare male del merito? Tu invece su quella retorica hai scritto una canzone molto affilata…

La meritocrazia è la grande bugia del capitalismo. Pensare che quelli che stanno su ci stiano per meriti è il grande errore, che va veramente smantellato con ogni mezzo nella mente delle persone. “Se lavorerai, se ti farai il culo, anche tu arriverai lì”: non è vero! I padroni resteranno sempre i padroni, gli schiavi resteranno schiavi. Queste cose gli artisti devono dirle, oggi. E se non le dicono non sono artisti. Gli artisti devono essere coraggiosi. Sono molto pasoliniano in questo, ho esempi molto chiari da seguire e intendo seguirli fino alla fine dei miei giorni, sebbene possa sembrare anacronistico. Anche questi discorsi che stiamo facendo sono molto anacronistici, e non dovrebbero esserlo…

 

Sono discorsi “retrò”…

Ma c’è qualcosa di marcio se questi discorsi sono retrò. Perché ti renderai conto della profonda attualità di quello che stiamo dicendo.

 

Nel tuo disco poi non mancano momenti anche dolci, più riflessivi. C’è “L’amore e il veliero” che è un bel waltz time di quelli che uno si porta appresso per tutta la carriera, la tua “Buonanotte fiorellino”…

Sì, poi armonicamente ci sono delle chiare citazioni in tutto il disco. Da “Sposami sul mare”, con le chitarre iniziali che richiamano Gino Paoli e “Sapore di sale”, a “L’amore e il veliero” che rimanda ad alcune faccende di degregoriana memoria, è un album fatto totalmente di citazioni, anche dal punto di vista stilistico degli stru- menti. È un lavoro che è durato mesi, fatto con Roberto Trenca, il mio chitarrista. È molto bravo, ha lavorato con Guccini e con Isabel Parra.

Anche le chitarre di “Il primo tra i fanti” sono suonate e microfonate come nei dischi del Folkstudio, ci siamo proprio messi a studiare questi aspetti qui. Adesso che te l’ho detto ci farai ancora più caso. Poi “L’amore e il veliero” è prismatica, è una canzone d’amore che parla di amore e depressione, che ha più livelli di approfondi- mento. Non è, all’italiana, “io ti amo”, c’è un discorso guidato da una simbologia che rimanda a certe situazioni, personali e non. Ad esempio, quando canto “mentre combatto col mostro”…

…è il momento in cui dal vivo mimi uno schermidore…

…esattamente, e quello naviga intorno a una simbologia. Per tornare al discorso di prima: una canzone d’amore che parla di mostri condivisi da una collettività. Molti vengono a dirmi: “perché mi colpisce tanto questa canzone, questa storia del mostro?” Si trovano trascinati in certi pensieri, perché una canzone d’amo- re può portarli a guardare un mostro che hanno dentro.

 

È chiaro. Anche le cose introspettive, persino romantiche, non sono solo introspettive e romantiche…

Mai.

 

…proiettano il discorso altrove. Capisco cosa intendi. Dicevamo, sette anni dall’album precedente, che era SPOT, che è un acronimo per Senza perdere ‘o Tiempo. Ancora un riferimento al tempo, come Retrò. È un caso o il tempo è proprio una questione che ti sta a cuore?

Ti dirò, sicuramente io sono molto legato ad alcuni momenti della mia vita. Ho molta nostalgia dei passati. Il fatto di aver sempre avuto un rapporto migliore col passato che col futuro mi mette in un perenne conflitto col presente. Sì, il tempo fa parte dei miei argomenti, talvolta prediletti, talvolta detestati.

 

Usare la lingua napoletana ha a che fare con questo? È la lingua con cui dai voce a qualcosa di più, come posso dire?, antico?

Scrivere in napoletano per me è usare la mia seconda lingua, che in realtà è la prima. Però il mio è un napoletano che non si usa più, non è il napoletano che scrivo- no i cantautori oggi a Napoli, mi prendo il lusso di dire

cose come “accummuogliete buone”, che è un modo di dire antico (“copriti bene”). Il mio è un napoletano di quartiere, che senti parlare ancora da qualche vecchio. Perché anche il napoletano, come ogni lingua, si sta modernizzando, ma non mi appartengono alcune delle coordinate che stanno dando le nuove leve…

 

E differenziare i due codici espressivi ha per te una funzione specifica? Ci sono pensieri che affidi più volentieri a una lingua che all’altra?

Il napoletano per me è più facile. Molto più facile. L’italiano è difficilissimo. Il napoletano ti consente delle parole che non chiudono in vocale, e quindi è più musi- cale sul tempo, le tronche sono molto più gestibili nelle strofe.

Mentre il versificare napoletano è un versificare molto più semplice da assemblare e da scomporre, il versifi- care italiano richiede un altro lavoro, assolutamente più complesso. Poi l’italiano è una lingua di una pericolosità incessante, ti spinge sempre verso dei bordi di retorica a cui devi stare molto attento. Il napoletano difficilmente ti porta verso la retorica, a meno che non voglia andarci tu. Con l’italiano ci finisci spesso, e questo è pericoloso nell’ambito poetico.

 

Dunque ci possiamo aspettare un altro album in napoletano?

Sicuramente ci sarà, non so se sarà il prossimo. Sto pensando a un Retrò 2, da fare con la stessa etichetta, La Canzonetta, e magari in futuro uno SPOT 2, sto già scrivendo. Vedremo…

 

Quando scrivi in napoletano affronti diversamente la parte musicale?

No, quello mai. Quella la affronto sempre con lo stesso meccanismo di autocomposizione e autoarrangiamento che prevede una gestione dell’orizzontalità — il procedere della linea melodica — e della verticalità — l’arrangiamento armonico e strumentale. Quello è sempre uguale per entrambe le specie di canzoni.

 

A proposito dei tempi passati e a proposito di Napoli: ci sono stati anni in cui Napoli ribolliva anche di musica afroamericana, blues, jazz, rhythm and blues… un incontro che ha prodotto anche cose grandiose. Per te quel periodo e quell’incontro sono un riferimento? Una ispirazione? 

Ho molto amato Pino Daniele, ma non mi sono lasciato trascinare da questa cultura afroamericana che ha Napoli. Il mio sguardo è diretto molto più verso oriente. Sono interessato a quello cha accade lì nella musica per film, specialmente nel cinema coreano e nel cinema giapponese. Mi piace molto l’est dal punto di vista sonoro, provo molto interesse verso l’Oriente tutto. Verso l’America ultimamente no, specialmente negli ultimi venti o trent’anni mi piace poco dal punto di vista sonoro. La nostra radio passa solo musica americana, mi dà il polso della situazione, io ascolto e non mi piace per niente. Faccio le mie ricerche che solitamente guardano anche alla musica africana, cerco di andarmi a prendere sonorità in giro per il mondo e riprodurle dentro i miei arrangiamenti.

Poi sicuramente alcuni dischi capolavoro — quelli del giovanissimo Pino Daniele, i primi tre che veramente hanno fatto la storia — li conosciamo tutti a memoria e li abbiamo amati profondamente. Ma capirai che quella era un’America che proponeva ben altro rispetto a quello che ci propone oggi…

 

…anche se poi in momenti come “Adda venì Baffone” si capisce che passi di lì…

Passo di lì per quella faccenda delle citazioni di cui ti parlavo prima. Lì si sente chiaramente il riferimento al disco di “Je so’ pazzo”. Però diciamo che con Terra mia è quello meno americano di tutti. Forse posso darti ragione sull’arrangiamento degli ottoni, leggermente blues…

 

…pensavo esattamente a quello…

Sì, però se ascolti “‘O Mare va truvann’ ‘e forte” sentirai un’orchestra d’archi che richiama molto le armonizzazioni sakamotiane. Oppure, se hai presente Miyazaki, il regista, pensi a compositori che muovono gli archi in un certo modo. Anche in “Core mio”, lì c’è molto Oriente. E c’è anche il nord Europa, ma non c’è proprio America.

Cos’è che ti piace in questi orizzonti musicali e che non trovi in cose più occidentali?

Mi piacciono, mi piace che procedano lontani da meccanismi di mercato. Una delle cose di cui risente molto la musica occidentale, e che secondo me ne definirà il declino — un po’ come sta succedendo in altri campi — è il dover produrre rapidamente rifacendosi sempre a ciò che “funziona”. Questo porta al declino della musica, come anche del cinema. Pensa a queste serie, siamo costantemente sovraccaricati da materiale prodotto ogni giorno, tutto sempre uguale a quello che va di più, quello che il mercato vuole qui ed ora. Invece quelle dimensioni mi sembrano molto lontane, ho come l’impressione che anche culturalmente lì si prendano più tempo per produrre le loro cose. Io ho una formazione al conservatorio di Napoli, conosco la musica occidentale, quella classica, ho ascolta- to anche molto jazz in passato. Poi mi confronto con queste altre dinamiche e si creano dei bei crossover, capisci? Mi piace questa osmosi. Se poi pensi che queste cose che ti sto dicendo le porto nella dimensio- ne della canzone d’autore italiana, è una cosa partico- lare, ed è la mia ricerca personalissima che non mi è imposta da nessuno. Io non ho un produttore di una major che mi dice “devi uscire vestito così, devi fare queste sonorità perché in radio va questo”. Non me ne frega nulla, faccio solo ciò che mi dice il cervello.

 

Una ricerca personale che ti pone accanto a pochissimi, chi è che si è spinto così? Pino Daniele? Ivano Fossati?

Guarda, non chiedo paragoni così importanti, so che ho deciso di fare questo, e so che già il fatto che oggi sto parlando con te per una intervista è un miracolo, perché capirai che quello che faccio è una cosa di cui, per come è gestito il mercato musicale, non frega niente a nessuno. Però interessa a me e a pochi altri che amano questa faccenda. E quindi la porto avanti.

 

Giovanni, a proposito degli arrangiamenti e della cura che metti in tutti i passaggi della produzione di un album, dove nulla è casuale: immagino che però poi dal vivo la dimensione full band non sia la più frequente…

Io giro principalmente con voce e chitarra. Però ho fatto molti concerti full band appena uscito il disco. Un bel tour, tutta l’estate…

 

E quando giri con voce e chitarra come affronti quegli arrangiamenti?

Beh, dò più importanza al testo, cerco di creare uno show, ti faccio sentire con la chitarra l’armonia, ciò che accade nella canzone, ma insomma capirai che non è la stessa cosa. Già un duo sarebbe congeniale. Al massimo posso portare il computer, attacco la scheda audio, passo le tracce di tutto, però… boh? Stavo anche pensando di venire così all’Asino Che Vola, perché è diverso far sentire la canzone nella sua completezza, ma così si rischia un po’ l’effetto karaoke… uhm, non lo so. Ci penso un po’.

Di Max Giuliani