Intervista a Rocco Rosignoli

Rocco, raccontami la tua storia artistica…

Ho quarantadue anni e ho iniziato a suonare la chitarra a undici. La mia mira era semplice ma precisa: cantare le canzoni di Guccini.
Studiai chitarra classica per due anni in un’ottima scuola, e imparai un sacco di cose ma nemmeno un singolo accordo. Era tutto utilissimo, ora lo so, ma di poca soddisfazione… quindi mollai la scuola e per qualche tempo anche la chitarra. Un anno dopo mi tornò la smania di suonare e comprai un librettino con le posizioni di tutti gli accordi. Grazie alle basi che avevo già acquisito imparai velocemente ad accompagnarmi e a cantare.

Evidentemente avevo già allora la necessità di esprimere qualcosa, perché ricordo che a quindici anni ho cantato per la prima volta una mia canzone in pubblico… da allora non ho più smesso. Ho scritto tantissimo, ho imparato a suonare diversi strumenti, tra cui violino e mandolino; mi sono laureato in Lettere e, nello scorso settembre, in Studi Ebraici. Da autodidatta ho studiato anche armonia e teoria musicale, e ho imparato ad arrangiare. Ho anche diretto alcuni cori ed ensemble, e ho pubblicato diversi dischi – sia di brani miei che di altro repertorio: musica ebraica, canzone politica, traduzioni di Leonard Cohen. Ho anche collaborato come musicista con tanti artisti che stimo, come Alessio Lega, Francesco Pelosi, Davide Giro- mini, Miriam Camerini, oltre a Max Manfredi, che ho accompagnato tante volte dal vivo.

Accanto all’attività da musicista c’è, strettamente collegata, quella (si parva licet) di “critico”: dopo aver pubblicato per tanti anni articoli di argomento culturale e musicale per diversi giornali, ho scritto diversi saggi, uno su Leonard Cohen e uno su Guccini, e un altro dedicato al film Il Laureato.

 

A proposito dello studio della cultura ebraica, come entra questo elemento in quello che fai?

La cultura ebraica entrò nella mia vita quasi per caso più di vent’anni fa, quando, in cerca di un corso universitario da cinque CFU con cui sostitui- re uno degli umilianti tirocini a cui avevo visto sottoporsi i miei colleghi, individuai un corso di “Lingua e cultura ebraica”. Non avevo alcun parti- colare interesse pregresso, semplicemente pensai: quando mi ricapita? E decisi di frequentarlo e di sostenere l’esame. Fu amore immediato, e in breve tempo la vicinanza alla cultura ebraica, e la passione e lo studio che comporta, divenne uno degli aspetti più importanti della mia vita. A quel corso peraltro conobbi anche Alice, che è attual- mente la mia compagna e con la quale ho due figli! Sono un ateo convinto, la mia vicinanza è pura- mente intellettuale ed emotiva, e negli anni mi ha portato a dedicare ricerche anche all’aspetto musicale di questa specifica cultura (o meglio, di tutte le specifiche culture che contribuiscono a darle identità).

Poi faccio dal 2007 la guida nel Museo Ebraico Fausto Levi di Soragna (PR), uno dei primi aperti in Italia, dove curo anche un laboratorio di musica ebraica diretto alle scuole intitolato Shir. Parte del materiale di questo laboratorio è finito nel mio disco omonimo del 2018; mi occupo di divulgazione della cultura ebraica presso scuole, associazioni, enti, usando spesso proprio la musica come trami- te; in più, ho spessissimo l’immenso onore di farlo in compagnia di Miriam Camerini, attrice, cantante e regista teatrale, in procinto di diventare la prima rabbina donna italiana nel mondo ortodosso. Con lei abbiamo tanti spettacoli e repertori di musiche ebraiche dal mondo. Poi, abbiamo anche realizzato

insieme uno spettacolo dedicato a Pasolini, che nulla ha a che vedere direttamente con il mondo ebraico (anche se pare che una sua bisnonna fosse un’ebrea polacca fuggita di là con un avo del poeta, soldato napoleonico, per amore), ma per cui entrambi (che siamo anche laureati in lettere) abbiamo una predilezione.

 

A tutto questo si lega la passione per Leonard Cohen…

Sì, nel 2022 ho pubblicato per Mimesis L’arte di Leonard Cohen, dedicato agli aspetti specificamente ebraici presenti nella sua opera, a cui ha fatto seguito il mio cd di traduzioni Musica straniera – le canzoni di Leonard Cohen.

Oggi sto lavorando all’adattamento in italiano delle canzoni di Mordechai Gebirtig, grande cantore ebraico del ghetto di Cracovia. Ne ho già raccolte parecchie in un mio monologo di teatro-canzone, e spero che presto possano diventare un album: sono opere dal profondo valore artistico, che possono dare una lettura dell’ebraismo est europeo e della tragedia della Shoah che esca dagli stereotipi che troppo spesso ne connotano la narrazione.

Rocco, il formato dell’LP tramonta per via della distribuzione digitale, ma mi pare che tu ti sforzi di conservare una specie di unità narrativa nei tuoi lavori…

È una questione che apre la via a un discorso potenzialmente infinito. Certamente io intendo ancora un album come una sorta di “macrotesto” all’interno del quale ogni canzone assume un suo significato specifico in virtù del contesto in cui è inserita. Così come isolare una poesia rispetto al libro in cui è pubblicata ce ne fa perdere alcuni aspetti magari importanti, altrettanto vale per una canzone. Sono consapevole però che anche questa attitudine è figlia di uno sviluppo storico influenzato da circostanze materiali: la durata dei supporti di un tempo, prendiamo i vinili, ha spinto alcuni artisti a fare di quei dischi da 45 minuti totali qualcosa di più che una semplice carrellata di canzoni, come invece avveniva all’inizio, quando i 33 giri raccoglievano i successi già pubblicati in singoli a 45 giri.

L’idea si è sviluppata, e ha portato addirittura ai concept-album, evolutisi poi ulteriormente con durate superiori, e con la fine della dicotomia tra lato A e lato B, nell’era del CD. Ma è una concezione che oggi va smorzandosi, anzi è praticamente scomparsa, perché sempre più la distribuzione digitale spinge verso un ascolto casuale e un po’ passivo della musica. Sempre più spesso chi pubblica sceglie di accettare questa tendenza del mercato, e pubblica un brano ogni tot, secondo un piano editoriale più o meno studiato.

 

Una svolta radicale…

È un cambiamento materiale prima di tutto. Abbiamo assistito alla fine di un’attività industriale, quella discografica, che ha avuto un ruolo centrale nella formazione culturale di chiunque abbia, a spanne, più di trent’anni. Ma era legata a un prodotto materiale, disco, cd o cassetta che fosse (per i quali oggi si fatica addirittura a trovare un lettore); e a una filiera che oltre agli artisti e ai produttori includeva dirigenti, tecnici, operai, facchini, camionisti, negozianti… tutto un mondo che è praticamente scomparso; e che, benché la nostra

vita ne sia stata permeata, tutto sommato come fenomeno di massa è stato di breve durata, circo- scrivendosi grossomodo tra gli anni ’50 e gli anni 2000. Questa estinzione del mercato discografico è avvenuta contemporaneamente (e non so dire se in rapporto di causa ed effetto, e se sì in quale) a un cambiamento del costume che ha visto modificarsi radicalmente la funzione socia- le della musica, che rispecchia anche un cambia- mento avvenuto nel modo di sentirsi cittadini, che negli ultimi trent’anni ha subito un’accelerazione spaventosa. Insomma, a conti fatti, io lavoro per un mercato che non c’è, concependo un prodotto che non si acquista più e sviluppandolo in un modo non adeguato ai tempi che corrono. Tutto ciò è straordinariamente assurdo, e mi gonfia il petto di un vano orgoglio donchisciottesco. Ma per come concepisco io l’idea di canzone, non ho ancora trovato un altro modo di veicolarla.

Però per l’ultimo CD “Giglio Tigrato” hai avuto un’idea molto originale…

Per accompagnarne l’uscita ho ideato e prodotto un podcast che dà un contesto narrato alle canzoni che lo compongono. Forse può essere un modo per resistere alla liquefazione degli ascolti e all’atomizzazione sociale dei gesti artistici. O forse serve qualcosa di diverso ancora. O magari, chissà, biso- gna che questo tipo di arte raggiunga la sua sublimazione riducendosi all’osso nell’esercizio del live, che vive di oralità e rapporto diretto, e rinunci a una comunicazione di massa che ai nostri giorni per lei non è più possibile. Oggi come oggi, è impossibile dire cosa succederà, ogni strada è aperta.

 

Peraltro quello che chiami “l’esercizio del live” è una parte rilevante del tuo lavoro…

Una parte fatta di concerti, lezioni-concerto, spettacoli di teatro-canzone, attività come musicista di scena. Ormai è una ventina d’anni che faccio questa vita, e il fatto di avere creato un mio piccolo seguito che mi permette di vivere di musica in un’epoca in cui questo mestiere va quasi sparendo mi dà grande soddisfazione.

 

Oltre alla intertestualità che cerchi di conservare nei tuoi album, la tua musica vive anche di connessioni extratestuali, di pezzi di altre cose che ritornano nelle tue canzoni. Un po’ come accade nella musica popolare…

La musica popolare, o tradizionale, ma direi in senso lato la cultura orale — anzi, diciamolo pure: il folklore, visto che siamo al FolkStudio! — ha certamente un ruolo importante nel mio mondo musica- le. Oltre ad averla studiata, esplorata, praticata, mi sono reso conto recentemente che ha avuto un ruolo seminale nella mia infanzia. Non sono certo cresciuto in un mondo contadino, ma alcuni miei famigliari sì; mio zio era uno straordinario narratore di leggende, e ricordo bene che mia nonna mi insegnava tantissime filastrocche, che da quel mondo venivano, e io le imparavo a memoria. Ricordo che nella vecchia casa che avevamo in montagna c’era un grande davanzale, in soggiorno, e io bimbetto riuscivo ad arrampicarmici con facilità scalando lo schienale del divano; da lì in cima, come fosse un palco, impugnando una chitarra giocattolo, improvvisavo concerti per la famiglia, inventando melodie astruse per quelle filastrocche, il cui repertorio di formule e parole in qualche modo ha contribuito a formare il mio linguaggio artistico…

 

…Scusa, la nonna di cui parli è la stessa nonna Giuliana di cui racconti in Giglio Tigrato (“Giulia”)?

Sì, è proprio lei. L’unica nonna che ho conosciuto, in effetti, e che a ben vedere non era neppure mia nonna, biologicamente, perché mio nonno la sposò in seconde nozze dopo essere rimasto vedovo con quattro figli.

La “matrigna cattiva” delle fiabe è quanto di più distante ci sia da ciò che lei è stata per mia madre e i suoi fratelli, che l’hanno tutti amata profonda- mente, compreso chi all’inizio era dubbioso su questo secondo matrimonio. Per mia mamma e mia zia, le più giovani, fu davvero come una mamma; al punto che, quando mio nonno morì, nessuno si pose nemmeno il problema se fosse opportuno che lei rimanesse a vivere con loro o no: erano una famiglia, ed era ovvio che quella fosse casa sua.

Io ho vissuto con lei per i primi dodici anni della mia vita, e le ho voluto un bene enorme, come chi è così fortunato da avere dei nonni può immaginare bene. Oggi sono certamente molto diverso da com’ero quando trent’anni fa ci salutammo l’ultima volta, e probabilmente alcune cose di me non le piacerebbero, ma sono certo che l’amore profondo che ci univa, quello no, non sarebbe cambiato mai.

 

Tornando alla musica folk: la tua scrittura, i tuoi temi, mi riportano a quel mondo che scaturì dall’esperienza del Nuovo Canzoniere Italiano e del Cantacronache. Che rapporto hai con quella storia?

Molto stretto, soprattutto con i Cantacronache, di cui adoro l’opera pionieristica e che ho studiato a lungo, arrivando anche a intervistare uno dei suoi fondatori, Emilio Jona, per un progetto editoriale che spero di portare presto alla luce. Credo poi che Fausto Amodei, che ha militato sia in Cantacronache che nel Nuovo Canzoniere Italiano, sia uno dei mag- giori cantautori della nostra letteratura, anche se purtroppo non è noto quanto De André o Guccini.

Io sono cresciuto in una casa in cui si ascoltavano i Cantacronache, e quando sedicenne scoprii le songs di Bertolt Brecht pensai subito che somigliassero a quelle dei Cantacronache, ignorando che il collettivo torinese si fosse ispirato proprio a Brecht per il suo progetto!

Ai Cantacronache devo quella che è stata fin dall’adolescenza una stella polare per il mio can- tare, l’idea cioè che quel che faccio può essere bello o brutto (e questo non potrò mai essere io a deciderlo), ma non deve mai essere “gastronomico”, mai cioè qualcosa da ingurgitare e poi espellere dopo averlo digerito; non vuole mai essere evasione, vuole essere qualcosa di diverso, che abbia uno spessore che va oltre il mero intrattenimento. Che poi io sia in grado di farlo, è tutt’altra questione, che ancora non posso essere io a giudicare; ma gli intenti che mi muovono a scrivere, suonare e cantare, sono quelli, e per me sono chiari. E danno senso a tutto.

Di Max Giuliani